Depressione, molto se ne parla ai giorni nostri. Già, ma cos’è in fondo ?

Paolo Pancheri, noto psichiatra, la descrive come una delle modalità costanti dell’uomo di reagire di fronte a svariate cause, fisiche o psichiche, e la psichiatria tutta la annovera fra i disturbi dell’umore. In effetti, semplificando, la depressione comporta un abbassamento progressivo del tono dell’umore, quasi uno “spegnimento” della vitalità tipica della storia individuale. Generalmente le persone depresse provano sentimenti di tristezza e mancanza, accompagnati da stati d’ansia e con possibile sviluppo di veri e propri sensi di colpa. Tipico è anche il vissuto pessimistico del presente, con la perdita degli interessi e la difficoltà di immaginare il proprio futuro, di avere delle “prospettive”. Agli occhi di un osservatore esterno l’aspetto generale della persona rimanda un’impressione di trascuratezza, il tono generale è piuttosto basso e l’andatura è “pesante” o flemmatica, rallentata. Spesso c’è anche la concomitanza di disturbi somatici, quali riduzione del sonno e dell’appetito, problemi intestinali e della sfera sessuale; a questi si accompagna di frequente un aumento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca da un lato, e una diminuzione dell’attività motoria dall’altro. Tutte queste manifestazioni sono indici riconosciuti di una generale alterazione della vita biologica dell’individuo depresso.

Sappiamo abbastanza di questa patologia e ci è dunque possibile rintracciarne tre elementi caratteristici: 1) l’essere una risposta allo stress interno ed esterno all’individuo; 2) la “riduzione” del funzionamento biologico e psicologico quale risposta a tale stress; 3) l’andamento stagionale e la trasmissione familiare del disturbo (base biologico-genetica). Più in dettaglio, lo stress circostante funge da “attivatore” del nostro sistema nervoso e ormonale, scatenando intense reazioni chimiche e psicologiche nel momento in cui l’individuo non è più in grado di fronteggiare le richieste ambientali (è scientificamente documentato un consistente innalzamento del livello di serotonina, un neurotrasmettitore che regola l’umore, in concomitanza di uno stato depresso).

 

Poiché solamente in Italia ci sono oggi circa cinque milioni di persone depresse, cerchiamo allora di vedere più da vicino cos’è la depressione, come entra nel nostro vivere, provando a individuarne  vicoli ciechi e vie d’uscita. Per far questo prenderemo in prestito l’esempio di un giovane di 22 anni, Giuseppe, di bel aspetto e piuttosto simpatico.

Quando lo vidi la prima volta mi parve subito un ragazzo gentile e attento a tutto ciò che lo circondava…, un tipo decisamente “tranquillo”. Forse troppo tranquillo. Soprattutto visto e considerato quello che gli era accaduto.

La sua passione per il calcio era grandissima, non passava giorno senza allenamenti o partite di turno, ed era anche decisamente bravo. “Un vero talento”, mi disse il suo allenatore un anno dopo la mia conoscenza di Giuseppe.

Purtroppo non sempre nella vita le cose vanno come vorremmo noi, e le difficoltà che incontriamo a volte rappresentano delle “sfide” tutte nostre, che però possono aiutarci a crescere. Devono aiutarci a crescere.

Il fatto è che Giuseppe, circa un anno prima di andare dallo psicologo per un consulto, era stato “scartato” in un importante provino di una società professionistica di serie A: fra i tre giocatori rimasti per solo due posti disponibili, esclusero proprio lui.

Da quel momento in avanti fu un susseguirsi di eventi “sfortunati”, perché di lì a poco ebbe un incidente con la moto insieme ad un suo amico in cui si ruppe i legamenti del ginocchio, dovendo così interrompere con il calcio per circa un anno e mezzo. Affrontò anche la fine della storia d’amore con la sua ragazza che durava da diversi anni, una storia per lui molto importante. La tristezza e lo sconforto lo portarono anche ad abusare di droga per circa un anno.

Accade che in momenti particolari della vita, momenti in cui si è più esposti e fragili, il verificarsi di un’esperienza o di una serie di eventi contingenti negativi, possano fungere da “dispositivo di innesco” di una reazione a catena che spesso conduce l’individuo sull’orlo del baratro. Si tratta, come ci ricorda Aaron Beck (1984) noto a livello internazionale per i suoi studi sulla depressione, di esperienze che connotano una perdita importante per l’individuo, un vissuto di perdita che si allarga a macchia d’olio pervadendo l’immagine che la persona ha di se stessa, del mondo e del suo futuro (la cosiddetta “triade cognitiva”). Questi avvenimenti possono essere ovvi e vistosi, come la perdita di una persona cara, o più sottili e sfuggenti, come una delusione dovuta allo squilibrio fra sforzo profuso e risultato finale (per esempio un insuccesso o una forte delusione). Il fatto è che a partire da questo “evento negativo” l’individuo attiva dei modelli cognitivi di perdita, cioè dei pensieri negativi precostituiti e immodificabili (poiché ritenuti assolutamente validi) che rinforzano sempre più il suo vissuto emotivo di sconfitta, disistima e sfiducia. Si viene così a creare un “circolo vizioso” in cui i vissuti provati agiscono a loro volta sui pensieri negativi fino a strutturare delle vere e proprie convinzioni. Queste ultime “orienteranno” l’individuo in una sorta di “visione tunnel”, per cui riesce a prendere in considerazione soltanto i lati negativi delle esperienze e mai quelli positivi o, addirittura, vedere il negativo là dove non c’è.

É in questi momenti che i nostri meccanismi di difesa possono entrare in crisi, minacciando l’equilibrio personale. È in queste circostanze che l’essere umano scopre i propri limiti ed alcuni aspetti di sé che fino ad allora gli erano sconosciuti o su cui non si era mai soffermato. Questo lo pone spesso di fronte al difficile compito non solo di riconoscerli, ma di accettarli per poter poi effettuare i cambiamenti funzionali al proprio benessere individuale. Il fatto è che spesso sono coinvolte anche le persone a noi più vicine e care.

Ma quand’è che il sostegno dell’altro non ci basta più, non riesce più a consolarci e convincerci che tutto passerà e arriveranno giorni migliori ? Perché ad un certo punto non “sentiamo” più i consigli dell’amico o del familiare che fino ad allora ci hanno sempre indirizzato? Torniamo un momento al nostro caso per cercare di rispondere a questo interrogativo.

Quando, nel primo colloquio, si sedette davanti allo psicologo Giuseppe disse due cose: la prima era che veniva da una psicoterapia cognitivo-comportamentale durata due anni, e l’altra, riportando testualmente, “Io sono uno sfortunato per natura”. Questa affermazione è indicativa del “sommerso” che sostiene una depressione, la quale è soltanto la punta dell’iceberg.

Un’esclusione significativa, un incidente compromettente, un “lutto” sentimentale ed una conseguente dipendenza da sostanze…, tutto questo aveva giustificato la precedente diagnosi di “Depressione reattiva forte, senza pianto ma con astenia”.

Giuseppe aveva superato in realtà la fase strettamente clinica della sua depressione, non aveva più sintomi, ma l’impressione che rimandava era quella di un’estrema tranquillità, che se non sconfinava nel disinteresse vero e proprio, molto si avvicinava ad una forma di demotivazione pervasiva. È bene sottolineare che il rischio in questi casi diventa quello di consolidare una “posizione psicologica di guarigione” che non corrisponde però ad un reale ritorno alla condizione di salute precedente all’evento significativo.

Quando Giuseppe arrivò dallo psicologo aveva ormai ripreso a giocare da un anno a calcetto in una società di serie A, dalla quale però era stato appena mandato via per scarso rendimento e per far posto ad un altro giocatore, ritrovandosi così a ricominciare dalla serie D: chiese di “ritrovarsi”, di aiutarlo a giocare nuovamente bene a calcio, di uscire dalla sua crisi di rendimento.

Il fatto interessante è  che se da un lato appariva sconfortato, dall’altro era desideroso di dimostrare a tutti quanto valesse. Proprio in questo vissuto c’era lo spiraglio per la sua “ripresa”.

Ognuno di noi, anche in funzione dei momenti che attraversa nella vita, possiede diverse capacità di reagire alle difficoltà che incontra: alcuni si abbattono, certe persone perdono persino la “strada”, altri invece continuano a lottare fino alla fine. La resilienza coincide appunto con quella particolare abilità, in parte innata in parte da acquisire, di trarre insegnamenti utili da esperienze negative; è in altre parole la capacità di restare lucidi nei momenti difficili, senza confondere le esperienze attuali con quelle precedenti, utilizzando strategie efficaci e sempre nuove. È “il non lasciarsi andare mai”, anche quando tutto sembra perduto (A. Oliverio Ferraris, 2002).

Tuttavia, la resilienza non è solo legata all’individuo e alla sua capacità di reagire, ci sono anche altre variabili che contribuiscono a creare le condizioni favorevoli al recupero. In particolare sono stati individuati cinque fattori nella gestione delle emergenze: 1) la natura del compito; 2) le abilità necessarie per portarlo a termine; 3) le caratteristiche personali (risorse, difese psichiche); 4) il supporto sociale; 5) la storia personale. I precedenti, il tipo di attaccamento e lo stile educativo in cui si è cresciuti sono tutti “ingredienti” della resilienza. Un caso emblematico a riguardo è quello del noto fisico contemporaneo Stephen Hawking, da molti paragonato ad Einstein. All’età di 21 anni gli venne diagnosticata la malattia che tuttora lo affligge e che gli impedisce di vivere normalmente, la sclerosi laterale amiotrofica. Egli non può muoversi autonomamente, non è autosufficiente e non è in grado di parlare; sarebbe dovuto sopravvivere per tre anni al massimo. Ma è ancora vivo. Ha fornito un contributo unico alla scienza e si è ripreso da una grave depressione. Il tutto grazie all’amore per la conoscenza e ad una donna che gli ha fornito l’amore e la comprensione di cui aveva bisogno.

 

Ma torniamo a Giuseppe. Dopo circa sei mesi di consulenza, oggi è di nuovo in corsa con se stesso, gioca in una società di serie C dopo una stagione di grande successo in serie D, nella quale ha vinto la classifica dei goleador con oltre 60 reti ed è stato premiato quale miglior giocatore del torneo. I suoi primi riconoscimenti ufficiali !

Che cosa gli è successo? Come mai quel ragazzo che non credeva più in se stesso si è  nuovamente “riacceso”? Dov’è finito il giocatore che si arrabbiava con gli avversari se lo provocavano e che puntualmente veniva poi espulso per falli di reazione ? Cosa è cambiato ? A distanza di tempo è più semplice rileggere il suo interessante caso.

In realtà Giuseppe si era trovato ad affrontare quella tipica condizione di stress da gara, di pressione da successo a cui devono far fronte diversi atleti che praticano lo sport ad un certo livello. Casi simili sono noti anche al grande pubblico attraverso i media, vedi quelli, peraltro recenti, di Marco Pantani e Diego Armando Maradona. Due ex campioni del ciclismo e del calcio che hanno avuto a che fare con storie di squalifiche per doping e problemi di tossicodipendenza. Le loro straordinarie carriere, seppur così diverse, hanno avuto un epilogo per certi versi comune, quantomeno simile. Ora dai giornali si apprende che le ultime persone vicine a Pantani lo descrivono “depresso e abbattuto”, raccontando un uomo schiacciato dal sistema del quale faceva parte; di Maradona sappiamo che, dopo essere stato in bilico fra la vita e la morte, è in fase di disintossicazione presso importanti cliniche specializzate. Il punto è che entrambi questi personaggi hanno vissuto in un modo o nell’altro una brusca “interruzione di carriera”. Le loro vite, come altre nel mondo dello sport, hanno conosciuto i vissuti e le conseguenze della depressione.

Già nel ’87 Ferruccio Antonelli e Alessandro Salvini rintracciavano nella psicopatologia dello sport vere e proprie sindromi specifiche e aspecifiche (vedi riquadro), indicando, fra le cause scatenanti, i sentimenti di inferiorità o di superiorità,  esperienze umilianti (tipo espulsioni, sostituzioni, rimproveri, critiche della stampa o dell’allenatore..), ostacoli alla realizzazione degli obiettivi (infortuni, trasferimenti, esclusioni dalla squadra titolare…), fattori extra sportivi (problemi familiari, impegni…) e fattori minori (pressioni dell’ambiente, difficoltà di ambientamento, cambi di ruolo, impopolarità…). Fra queste, la depressione da successo è una delle manifestazioni della nikefobia o paura del successo. Definita come una reazione disadattiva ad eventi soddisfacenti, questa sindrome sembra dipendere dal raggiungimento della vetta nella carriera di un atleta; questo traguardo diventa un limite oltre il quale l’individuo non è in grado di andare, non riuscendo così a stabilire nuove mete da raggiungere. Allo stesso tempo, dovendo preservare l’elevato status raggiunto, subisce una pressione a “dover essere” un atleta di successo che lo logora e lo abbatte, procurandogli un vissuto di perdita.

Ora, come ci dice E.H. Erikson, la crisi personale è una tappa necessaria per il passaggio da una fase all’altra del ciclo vitale di un individuo, e la sofferenza che l’accompagna è un ingrediente indispensabile per la sua crescita. A volte però si può verificare il blocco in una di queste fasi da cui si è incapaci di uscire, in cui ci areniamo a causa del verificarsi di quelle esperienze, che abbiamo visto essere capaci di scatenare delle reazioni a catena molto forti e alle quali attribuiamo significati del tutto personali. Le nostre reazioni sono dunque una modalità di  risposta  a queste frustrazioni per noi significative. Come nei casi di Pantani e Maradona. Come nel caso di Giuseppe.

Se da una parte lo sport ha fornito a Giuseppe un campo nel quale cimentarsi per esplorare le proprie risorse e conoscersi meglio, dall’altra gli ha insegnato ad avere di nuovo fiducia nelle proprie capacità e soprattutto nelle proprie possibilità. Attraverso la psicologia applicata allo sport, Giuseppe ha potuto comprendere che, nonostante gli eventi sfortunati che gli erano capitati, aveva comunque delle risorse psicologiche ed umane da tirar fuori e incanalare in modo efficace per raggiungere i propri obiettivi sportivi e personali. Nel suo breve percorso, Giuseppe ha sentito crescere dentro di sé la fiducia nelle proprie capacità, ha imparato a volersi bene per ciò che era, riscoprendo l’autostima. Non solo lo sport gli ha permesso, grazie alle gare, di migliorare l’autocontrollo personale, ma gli ha dato anche la possibilità di costruire e sperimentare una migliore immagine di sé, più matura e reale. Questo processo di cambiamento in positivo gli ha permesso di relativizzare il peso eccessivo che attribuiva agli altri, fino ad allora vissuti come veri e propri “giudici di sé”: oramai non ha più bisogno di dimostrare loro che quel provino mancato non stava a significare la sua incapacità, il suo scarso valore. È chiaro che questa era solo la sua convinzione.

Il caso di questo giovane che in pochi mesi ha avuto la forza di cambiare la propria condizione, salutando il ragazzo sfiduciato, fragile e irritabile che era e che in passato gli aveva “tirato brutti scherzi”, ci deve far riflettere. E’ cosa nota che lo sport produca tutta una serie di effetti sia fisici che mentali sull’individuo. Mentre i vantaggi fisici connessi all’attività sportiva sono ormai oggetto di studio da  diverso tempo, è soprattutto negli ultimi anni che anche i benefici psicologici iniziano ad essere compresi. È assodato per esempio che un esercizio fisico costante e di moderata intensità riduce la tensione nervosa, con effetti che possono protrarsi fino a 4-6 ore dopo l’attività grazie all’associazione con un aumento del livello di endorfine in risposta all’esercizio (le endorfine sono dei “tranquillanti naturali” prodotti dal nostro organismo in grado di modificare positivamente la soglia del dolore, la percezione di sé e lo stato d’animo) (C. Bazzano e M. Bellucci, 2001). Ulteriori conferme provengono da un interessante studio condotto di recente, che ha mostrato come l’attività fisica possa avere perfino un effetto antidepressivo, riducendo i sintomi di depressioni non psicotiche (Moore, ’99). Alcuni studi scientifici hanno documentato la correlazione esistente fra benessere psicologico ed attività fisica (D.C. Nieman, ’95) come riportato in Fig. 1.

Certamente lo sport, secondo le conoscenze attuali, ha un effetto benefico prevalentemente sugli stati ansiosi transitori che non su personalità già strutturate, ma il “farmaco dell’esercizio fisico” (C. Bazzano e M. Bellucci, 2001) potrebbe essere uno dei modi futuri per ridurre l’uso indiscriminato di analgesici, antidepressivi, sonniferi o tranquillanti, promuovendo invece la possibilità di riappropriarsi della propria salute fisica e psicologica: “mens sana in corpore sano”.

Del resto è ciò che è accaduto a Giuseppe. Ha scoperto una psicologia che attraverso lo sport gli ha fatto intraprendere una sfida nuova che forse non avrà mai termine: quella del mettersi continuamente alla prova per superare le difficoltà e continuare a crescere. E se è vero che uno sport troppo esasperato nella ricerca della vittoria pone l’individuo sotto stress, avvicinandolo più al robot che all’essere umano, è altrettanto vero, come dimostrano i recenti dati scientifici, che è nello sport stesso che possiamo trovare gli elementi della cura e della terapia di taluni disturbi emotivi: la depressione è uno di questi disturbi.

 

 

 

 

Bibliografia

 

C. Bazzano, M. Bellocci  “Efficienza fisica e benessere psicologico”, EMSI – Roma, 2001

A. Oliverio Ferraris, “La forza d’animo”, Rizzoli – Milano, 2002

P. Pancheri, “Manuale di Psichiatria Clinica”, Bulzoni Editpre – Roma, ’74

A. Beck, “Principi di terapia cognitiva”, Astrolabio – Roma, ’84

F. Antonelli, A. Salvini, “Psicologia dello sport”, Edilombardo – Milano, ’87